Un'intervista rilasciata il 15/05/2021 a Andrés Gomez, del giornale cileno “La Tercera”, tradotta e liberamente riadattata da Giovanna Barile
Leonardo Padura (L'Avana, 1955), scrittore e giornalista cubano.
Deve il suo maggior successo, non solo a Cuba ma anche all'estero, alla saga di Mario Conde, poliziotto disordinato, disincantato, che svolge il suo lavoro nei quartieri più popolari e più cadenti de L'Avana, vivendo pienamente la sua stralunata città. Di grande successo, tra i suoi molti romanzi, anche “L'uomo che amava i cani” (2009), sulla vita di Ramòn Mercader, l'assassino di Trozky, tradotto in molte lingue. Nel 2015 ha ricevuto in Spagna il prestigioso premio “Principessa delle Asturie” per la letteratura.
Vive a L'Avana, nel quartiere periferico di Mantilla, il quartiere dove è nato.
Durante la pandemia ha pubblicato un romanzo e ora ne sta scrivendo un altro.
Non è uscito da Cuba, ma è rimasto connesso col mondo: ha partecipato a festival e ha dato conferenze online da L'Avana.
Da questo punto di vista “non mi è poi andata tanto male, ho lavorato molto; ma ho anche sentito che mi mancava il movimento”, dice Leonardo Padura.
“Andare e tornare è parte della mia vita e si riflette nelle mie opere. Solo grazie alla possibilità di viaggiare e di tornare indietro ho potuto scrivere i miei romanzi”, ci racconta ora dalla Spagna. Ma secondo la sua stessa ammissione, anche se viaggia molto non ha mai voluto cambiare residenza: la sua vita è a L'Avana, così come la materia delle storie che danno forma ai suoi romanzi.
A settembre dello scorso anno è uscito il suo “Como polvo en el viento”, un romanzo che si discosta dalla saga del detective Mario Conde e che affronta il fenomeno e il dramma dell'esilio. Nelle sue 670 pagine, l'autore de “L'uomo che amava i cani” offre il racconto ambizioso e variegato di un gruppo di amici separati dalla diaspora.
Il racconto, con grande vigore e forza narrativa, si diversifica in numerose storie e personaggi legati tra loro, che attraversano paesi e continenti, da Miami a Madrid, da Barcellona a Buenos Aires.
Lei ha dei familiari negli Stati Uniti. Non ha mai provato il desiderio, o non ha mai avuto l'opportunità, di andare via da Cuba?
Sì, come quasi tutti i cubani ho parenti e amici negli USA, compreso un fratello, ma personalmente non ho mai progettato di vivere in un posto che non fosse Cuba, L'Avana, la mia casa nel quartiere di Mantilla. Spesso ho pensato che mi sarebbe piaciuto restare per un po' di tempo da qualche altra parte, ma non l'ho mai voluto fare davvero.
Il fatto è che per scrivere ho bisogno di essere a Cuba. La mia letteratura si alimenta di questa realtà: nella vita cubana ci sono i miei conflitti, quelli della mia generazione, quelli della maggior parte dei cubani, e credo di avere il dovere di rappresentarli dalla mia prospettiva e con le mie capacità.
Spesso i cubani dell'esilio radicalizzano le proprie posizioni e sembra che si crei una grande distanza tra quella comunità ed i cubani che sono rimasti sull'isola. Lei come la vede?
La vedo in molti modi diversi. E' un fenomeno difficile da spiegare e sintetizzare. Diciamo che sia a Cuba che nell'esilio ci sono cubani, tanti, e pertanto di sono molte opinioni differenti riguardo all'isola, alla politica, all'esilio.
Il problema è che, in linea generale, emergono solo le posizioni più estreme, quelle più gridate, quelle più schematiche. Perché queste sono le posizioni che pagano: le persone che manifestano queste opinioni estreme, dentro e fuori Cuba, hanno interessi politici contrapposti, e se per questa guerra servono generali, servono anche soldati che non solo vivono dentro questa guerra, ma vivono anche di questa guerra.
Tutto il chiasso che fanno impedisce di vedere che c'è tanta gente che vive la propria vita senza lasciarsi vincere dall'odio, dall'offesa, dalla sete di rivincita, tanta gente che aspira alla riconciliazione e ne ha bisogno. Questo è un punto importante: sono sempre stato convinto che il futuro di Cuba dovrà passare da una riconciliazione tra cubani, per superare i rancori (non ho detto per dimenticare, ma solo per superare), ma da diversi anni vedo questa possibilità sempre più lontana.
C'è gente che non solo vive nella -e della- contrapposizione, ma che lì canalizza le sue frustrazioni e le sue miserie, e questo è anche un modo di farsi vedere. Non voglio dire con questo che non ci siano anche tante persone con delle ragioni rispettabili, da un lato e dall'altro della barricata: c'è di tutto.
Ma mi fermo qui perché questo non è un saggio sull'esilio cubano e anche perché credo che perfino se scrivessi un saggio sarei ancora lontano dal riuscire a spiegare la complessità di questo trauma; potrei anche io risultare schematico.
Nel tuo ultimo libro ci sono dei segreti e si ha una sensazione di paura che perseguita alcuni personaggi. Questa paura ha a che vedere con la vita a Cuba?
Sì. La paura è un tema costante nei miei romanzi. Non si tratta del tipo di paura che poteva sentire un militante cileno sotto il regime di Pinochet; è invece qualcosa di più indefinibile, che si allunga nel tempo ed è proprio di una struttura sociale nella quale lo Stato è onnipotente e può decidere della singola vita di ogni singolo cittadino.
Chi ha vissuto in un sistema di Stato onnipotente, capirà. C'è gente che si lascia schiacciare da questa paura, e altri che la affrontano, come nel mio caso, ma non per coraggio: per istinto di sopravvivenza e necessità esistenziale. Se io mi fossi lasciato vincere dalla paura forse sarei andato via da Cuba o forse non avrei scritto i romanzi che ho pubblicato.
Nel suo romanzo i personaggi usano le reti sociali e Facebook, lei invece non le usa. Perché?
Credo che le reti sociali siano uno strumento utilissimo di comunicazione e scambio di informazioni. Hanno cambiato molti modi di rapportarsi alla società e alla vita in generale. Ma credo anche l'uso eccessivo delle reti può creare dipendenza. Io preferisco starne lontano: dico quasi tutto quello che penso e su quasi tutto attraverso il giornalismo e le interviste.
Lei sottolinea spesso di essere uno scrittore e non un politico. Questa posizione le ha causato delle critiche?
Io non sono un politico e la mia arte non ha fini politici diretti. Non milito in nessun partito e non faccio proselitismo.
Tuttavia non sono estraneo alla politica, nei miei libri ci sono delle posizioni abbastanza chiare e nelle interviste che rilascio parlo spesso di politica, perché mi fanno delle domande ed io esprimo le mie opinioni.
E' vero che qualcuno vorrebbe che io fossi il portavoce di alcune idee politiche, ma credo che spesso, quando uno scrittore aderisce a un gruppo politico, viene strumentalizzato, e questo non mi interessa. Chi vuole sapere il mio pensiero su quello che è successo e che succede a Cuba, lo troverà nei miei romanzi.
Il romanzo inizia durante il Periodo Speciale degli anni '90. La situazione che il Paese sta vivendo oggi è simile a quella di allora?
Cuba vive oggi un momento molto difficile, dal punto di vista sociale, politico ed ora anche sanitario.
Ci possono essere delle analogie con il Periodo Speciale perché si è accentuata la mancanza di beni di consumo, ma la situazione è differente da quella di allora. Il Governo ha fatto ogni possibile sforzo perché non si arrivasse agli estremi di quegli anni, soprattutto riguardo ai tagli alla corrente elettrica che oggi potrebbero essere un motivo di esplosioni sociali.
Ma se il periodo speciale fu causato da un fatto politico (la sparizione dell'URSS e dei suoi aiuti), quello che succede oggi è il risultato dello sfaldamento di un modello economico che si è tentato di aggiustare ma che continua a non funzionare.
C'è poi la questione dell'embargo americano, che Trump ha portato ai livelli più alti di sempre e che Biden non ha voluto toccare. A tutto questo, aggiunga che siamo appunto in un mondo di reti sociali, che i cubani più giovani hanno altre e diverse aspirazioni, che la pandemia ha deteriorato ancora di più l'economia dell'isola...
e così arriviamo a questo momento critico nel quale la gente si sente soffocata e non ha nemmeno più la valvola di sfogo dell'emigrazione, perché oggi non c'è un posto dove si possa andare. Le persone passano cinque o più ore facendo la fila per comprare cibo e spesso devono fare i salti mortali perché i soldi non bastano.
E' un momentaccio per la stragrande maggioranza della popolazione cubana.
Che significato ha per lei il fatto che i Castro non sono più al potere?
C'è in primo luogo una questione simbolica, che riguarda anche le diverse personalità. Fidel aveva un certo tipo di carattere, Raul era diverso. Più impulsivo il primo, più pragmatico il secondo, più di presenza fisica Fidel, più di vigilanza il fratello.
Ma fondamentalmente sono stati la stessa cosa e, dal punto di vista politico, continuano ad essere loro a dirigere la vita del Paese. Sono entrambi ancora lì.
Il Partito Comunista, durante il congresso nel quale Raul ha annunciato di lasciare i suoi incarichi, si è pronunciato per la continuità. Lo sapevamo tutti che in fondo il fatto che i Castro non fossero più lì non avrebbe significato una grande differenza rispetto a prima: in realtà, sono ancora lì.
Dunque oggi bisogna considerare questo cambiamento come un fatto biologico, un'assenza fisica, un processo simbolico, come dicevo prima, e non molto più di questo.
Forse tra qualche anno le cose cambieranno, ma per il momento non c'è nessuna volontà di cambiare. Si vuole mantenere una struttura politica messa in piedi più di 60 anni fa.
Cosa è più urgente ottenere oggi a Cuba: la piena libertà di espressione o la ripresa economica?
Non mi sembra che siano due cose contrapposte, ma piuttosto che vanno in parallelo: Cuba ha bisogno di maggiore libertà di espressione ed anche di risolvere i suoi problemi economici.
Entrambe le condizioni sono importantissime, essenziali. C'è gente che non si pone il problema della libertà di pensiero e di espressione, ma che tutti i giorni deve mangiare, vestirsi, magari avere anche un po' di distrazione. E c'è altra gente che, oltre a questo, sente la necessità di esprimersi, di dire delle cose anche a quelli che non si pongono il problema della libertà di espressione. Anche quello è il loro modo di alimentarsi.
Sarebbe dunque auspicabile che ci fossero dei cambiamenti nel sistema economico che possano migliorare la vita quotidiana di tutti e che, al tempo stesso, si aprisse un confronto di idee nel quale ognuno possa esprimersi liberamente, senza che il dibattito serva a delegittimare l'altro, quello che la pensa diversamente, come succede oggi e come è successo per anni e anni.
La democrazia, che sia socialista o quello che sia, deve rispettare questa condizione, promuovere il dialogo, dargli spazio, ma non solo per quelli che pensano le stesse cose... Stiamo parlando di diritti umani e civili, i più importanti di tutti.
Per questo non farei una graduatoria ma li reclamerei con pari urgenza perché di questo si tratta: di diritti.
traduzione e adattamento di Giovanna Barile da un'intervista di Leonardo Padura ad Andrés Gomez, del giornale cileno “La Tercera”
Due note a margine
di Giovanna Barile
L'esodo
Oltre alla prima ondata migratoria dei primi anni '60, dovuta alle nazionalizzazioni rea lizzate dal giovane governo rivoluzionario e che videro la fuoriuscita dal Paese dei ricchi discendenti delle nobili famiglie spagnole, un secondo e ancor più massiccio esodo di cubani verso la Florida si verificò nel 1980, a conclusione della decade che gli stessi cubani definiscono "il decennio grigio" dell'isola. Le condizioni economiche in peggioramento ed una soffocante censura ideologica, provocarono tentativi di fuga (favoriti e organizzati dalla comunità di origine cubana in Florida) sempre repressi dal governo de L'Avana. Solo agli inizi del del 1980 Fidel Castro decise che chi voleva lasciare l'isola, consapevole che non sarebbe mai potuto tornare, poteva farlo liberamente imbarcandosi dal porto di Mariel, pochi chilometri a Est de L'Avana. Tra l'aprile e l'ottobre dello stesso anno, 125.000 cubani presero il largo alla volta della Florida, dove li aspettava l'asilo politico e poi la concessione della cittadinanza statunitense.
L'esodo però iniziò ad avere risvolti politici negativi per l'allora presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter quando si scoprì che un'alta percentuale di esuli era stata rilasciata dalle prigioni e dagli ospedali psichiatrici cubani.
Una frattura insanabile, che divise quasi la totalità delle famiglie cubane, si creò tra chi era rimasto a vivere a Cuba, continuando a difendere la rivoluzione pur tra mille difficoltà, e chi aveva abbandonato l'isola per consegnarsi al "nemico". Tuttavia la sopravvivenza dell'economia cubana fu possibile, in quegli anni, anche grazie alle rimesse degli espatriati verso le famiglie rimaste nel Paese.
Il "Periodo Speciale in tempo di Pace"
Con la caduta del Muro di Berlino del 1989 e la successiva disgregazione dell'URSS, l'economia cubana si trovò repentinamente privata della maggior parte delle entrate, costituite dai quasi 5 miliardi di dollari annui che i sovietici garantivano sotto forma di aiuti e di importazioni di zucchero in cambio di petrolio. Il commercio internazionale del Paese crollò dell'80% e con esso crollò la disponibilità di beni di consumo e di petrolio. Fidel Castro proclamò allora, con un discorso davanti alla popolazione, un "Periodo Speciale in Tempo di Pace" che si concretizzò con il razionamento degli alimenti di base, con i temuti "apagones" (lunghe ore quotidiane di assenza di corrente elettrica), con la paralisi del traporto pubblico. Il tutto culminò nell'anno peggiore di tutto il decennio, il 1993, a seguito del quale furono introdotte alcune riforme: si aprirono le porte al turismo internazionale, ai contadini fu permesso di vendere al mercato una parte del proprio raccolto (anche se l'85% dei prodotti continuavano ad essere comprati dallo Stato a prezzi bassissimi). Va detto che per tutto il Periodo Speciale, istruzione e sanità continuarono ad essere garantite a tutti, e che la maggior parte delle scarse risorse del Paese furono concentrate su questi due settori prioritari.