Come la burocrazia dello Stato nega la serenità di una famiglia che vive in un bosco di alberi
la burocrazia nega la serenità di una famiglia
Ieri parlando a telefono con mia figlia, madre di 3 bambini che vive, insegna e svolge ricerche avanzate in una Università della Svezia, esperta tra l'altro di sviluppo cognitivo dei bambini, gli ho chiesto se avesse letto le cronache italiane sulla triste storia di 3 bambini che vivevano con i genitori in una casa nel bosco e separati da mamma e papà per ordine di un giudice che ne ha sospeso i diritti ritenendoli genitori inadeguati.
Penso che tutti conoscano per sommi capi questa vicenda che da giorni volteggia sui mass media : un giudice (cattivo) del Tribunale dei minori di Chieri toglie i 3 figli (sereni) ai genitori (strani ma buoni) perché vivrebbero in condizioni non adeguate in una casa in mezzo ad un bosco, un bosco di alberi nel comune di Palmoli, 800 anime in provincia di Chieti.
I due genitori, Catherine Birmingham (Australia) e Nathan Trevallion (Gran Bretagna) si sono visti portare via i loro tre bambini, la prima di 8 anni e due gemelli di 6, pochi giorni fa da uno spiegamento di decine di carabinieri. La madre Catherine è riuscita, tramite l'avvocato, ad ottenere di accompagnare i figli in una casa-famiglia a Vasto ma con il divieto assoluto di poterli addormentare, magari con una favola.
Nella storia della famiglia nel bosco ci sono dettagli tipici di una burocrazia raccapricciante, che fanno da contorno alla controversia principale ed esemplare.
La brutta storia della famiglia nel bosco inizia un anno fa: per caso i bambini trovano dei funghi nel bosco, li mangiano e si intossicano. Trasportati in ospedale guariscono dalla intossicazione ma finiscono sotto la lente dei servizi sociali, che indagano sulle condizioni di vita dei tre piccoli "selvaggi", scoprono che vivono in una casa nel bosco con tanti animali ma senza luce elettrica, gas e acqua corrente. Una condizione aggravata dai servizi igienici esterni alla casa e dalla mancanza di riscaldamento moderno, essendoci solo una stufa a legna (che in bosco è conveniente).
La relazioni degli assistenti viene inviata al Tribunale dei minori, poi arriva la polizia, si fanno indagini sui genitori, sull'eventuale abbandono scolastico ecc ecc
Alla fine il Giudice sentenzia e ordina la separazione dai genitori dei tre bambini che vengono affidati ad un avvocato (gli avvocati in genere sono molto esperti di bambini) e portati in un'altra abitazione, con la madre che può vederli solo per un'ora al giorno e il padre nemmeno quello.
Una decisione giusta o sbagliata? quella presa dal giudice, c'erano davvero le condizioni per allontanare i bambini dai genitori? la scelta di vivere in isolamento, senza comfort, senza relazioni scolastiche è esecrabile e rischiosa per il benessere e la crescita dei bambini?
Oppure, all'opposto, la scelta di Catherine e Nathan è legittima, priva di particolari rischi per il benessere e l'equilibrio dei bambini, quindi da rispettare, se non addirittura da imitare?
Con mia figlia condivido l'opinione che la burocrazia non è certamente la soluzione ideale e felice per gestire un caso complesso e delicato, posto che ci si trova in maniera inequivocabile di fronte ad una famiglia di cui molti hanno testimoniato la serenità e le attenzioni dei genitori verso i figli.
E avendo anche condiviso la condanna per la strumentalizzazione politica di questo caso, mi ha segnalato un post di Marco Rovelli
Condivido, 1) perché non tutti gli aspetti della vicenda sono noti; 2) perché la visione ecologista "della domenica" (quelli che credono di respirare aria pura ingorgando il traffico con la gita al parco della domenica) si coniuga con la visione della famiglia "povera ma bella ed eterosessualmente libera" che vive precariamente nella natura incontaminata. Sopra di loro svolazza l'avvoltoio Salvini in cerca di argomenti per polemizzare con la opprimente sinistra statalista.
Penso però che non sia molto utile ridurre la storia (brutta) della famiglia nel bosco solo ad una critica più che giusta alle strumentalizzazioni di Salvini o della Meloni.
Perché ci sono questioni ben più rilevanti da esaminare
Due in particolare:
1) L'omologazione dei concetti di benessere, felicità, crescita psicologica.
In una casa nel bosco i bambini vivono isolati, anche tra simpatici animali domestici, e ancora peggio se non frequentano nemmeno la scuola normale, anche se praticano l'unschooling. Come fanno a vivere senza l'enorme ricchezza di relazioni umane e sociali garantite dalla scuola e dalla frequentazione di altri bambini, buoni o cattivi ma pur sempre fonte di esperienze altrimenti negate?
La scuola prima ancora di essere un servizio per l'apprendimento di strumenti e cognizioni è una palestra di relazioni, affetti, rabbie, paure, affermazioni e delusioni. Un secolo fa la scuola non era tutto questo, perché era privilegio di pochi e la stragrande maggioranza della società viveva come "la famiglia nel bosco", senza luce acqua gas wc, con l'asino fuori la porta di casa, i bambini a razzolare nei campi e a battagliare con altri coetanei nelle stesse condizioni. La scuola era privilegio di pochi.
2) L'aspetto più importante e contraddittorio che emerge dalla storia della "famiglia nel bosco" è l'affermazione del giudice, che diventa una sentenza non solo giuridica ma anche morale e politica, che i genitori Catherine e Nathan non garantiscono il benessere dei loro figli, ovvero non li tutelano nell'aspetto più importante e anzi ne compromettono il futuro.
L'ordinanza del giudice sembra dire che il futuro dei "bambini nel bosco" è a rischio o addirittura negato, condannati dai loro genitori a diventare degli emarginati, stravaganti e fuori dal mondo civile.
E' un rischio vero? e chi può dirlo con sicurezza, la stessa sicurezza che ha spinto il giudice a strappare violentemente il cordone ombelicale tra la madre e i suoi tre piccoli figli?
Una famiglia che vive in un bosco, come i nostri antenati ci vivevano 100 o 200 anni fa, oggi non è concepibile secondo gli standard del benessere moderno.
Possiamo essere d'accordo sul fatto che nessun bambino dovrebbe essere costretto ad uscire di casa e attraversare un bosco freddo per fare la cacca, possiamo essere d'accordo sul fatto che andare a scuola assieme ad altri bambini consente di crescere e stabilire relazioni fondamentali.
Ma non possiamo nasconderci dietro ad un dito: milioni di bambini vivono con le loro famiglie dentro un bosco con alberi di cemento, nelle periferie di Milano, Roma o Napoli, dove conducono una vita piena di relazioni negative, pericolose, cattive, degradanti e diseducative. Sono esperti di youtube ma non sanno riconoscere un asino da una capra.
Milioni di bambini di cui nessun servizio sociale e nessun giudice dei minori si preoccupa, nè tantomeno i Salvini di turno.
Nei boschi di alberi di cemento in cui c'è la luce, il gas l'acqua corrente, il riscaldamento, il bagno dentro casa, la vita di molti bambini è più infelice di quella dei tre figli di Catherine e di Nathan, che a detta di tutti coloro che li conoscono sono persone colte, sensibili, affettuose.
La burocrazia della normalità, quella normalità che Salvini apprezza e invoca quando si tratta di discriminare nelle scuole i bambini figli di rom o immigrati e di cacciare via le loro famiglie, la burocrazia della normalità non si preoccupa del benessere dei bambini che vivono nei boschi degli alberi di cemento.
Nei boschi di cemento - le metropoli - non cinguettano uccelli e non pascolano cerbiatti, ma si odono rumori devastanti, clacson, si respirano inquinanti, si passeggia tra rifiuti di plastica, si litiga ai semafori, si sgomita sulle metropolitane, nessuno guarda qualcun altro negli occhi ma solo il proprio cellulare, e sugli alberi di cemento vivono ingabbiate famiglie, e nel chiuso di quelle gabbie nessuno si preoccupa di come crescono o cosa imparano i bambini, se ricevono affetti o disattenzioni, se vanno a scuola per relazionarsi o solo per fare i bulli.
A nessun giudice viene in mente di indagare sul benessere dei bambini che vivono nei boschi di cemento, e nemmeno ai politici interessa un fico secco.
Mitizzare la scelta di vita bucolica della "famiglia nel bosco" è una superficiale esagerazione: anziché migrare tutti nei boschi (devastandoli ulteriormente) sarebbe necessario occuparsi di migliorare le condizioni di vita, anche quelle dei bambini, nei boschi di cemento in cui viviamo con ogni comfort tecnologico ma nella povertà estrema di relazioni sociali benefiche e confortevoli.
Un tempo vivere nei boschi o nelle campagne significava vivere in comunità allargate e solidali, con tutti i vantaggi e i difetti delle comunità. Il "progresso" urbano e tecnologico ha distrutto quelle comunità e le culture che emanavano, sostituendole con modelli di individualismo, bullismo, indifferenza e superficialità. La famiglia nel bosco ritiene che la propria scelta di vita sia utile a difendersi dalle bruttezze della vita consumistica moderna. E' una scelta che stavano vivendo in solitudine e un giudice li ha involontariamente messi sotto i riflettori dell'opinione pubblica. Nessuno, tantomeno la burocrazia statalista, deve impedirgli di provare a vivere con dignità e serenità in un bosco pieno di alberi. I tre bambini nel bosco devono essere riaffidati ai loro legittimi genitori, circondati dall'affetto e dalla curiosità collettiva per il loro impegnativo esperimento di vita.
Ad una certa sinistra lontana dalla realtà, ossessionata dalla gestione burocratica della società e incapace di fornire alternative credibili alla demagogia dei Salvini e Meloni, pongo una semplice domanda: perché combattere contro la distruzione della foresta amazzonica e la scomparsa delle tribù indigene dell'Amazzonia, di cui giustamente si reclama la conservazione e la protezione, e poi cercare con la coercizione dello Stato di costringere una famiglia che vive come degli indigeni in un bosco ad omologarsi agli standard di vita degli individui "normali"?
Alcuni stralci dell'intervista che la "mamma nel bosco" Catherine Birmingham ha concesso a Il Centro
Lei continua a parlare di ingiustizia. Quale ragione si è data per questo intervento così drastico?
«Io ancora non lo so. Non lo capisco. Perché non abbiamo fatto nulla di male. Non abbiamo violato la legge italiana, viviamo sotto la legge naturale e i diritti costituzionali. I nostri bambini fanno educazione parentale, come previsto dalla legge. Viviamo in pace con la natura, non siamo criminali. I bambini sono felici, sono cresciuti bene. Perché siamo trattati così? Non riesco a capirlo».
Il tribunale sostiene che i bambini vivano isolati, senza rapporti con i coetanei. È questo il punto centrale.
«Non è la verità. I nostri figli hanno relazioni con altri bambini. Ma noi, come genitori, abbiamo la responsabilità della loro sicurezza. Noi scegliamo con chi far socializzare i nostri figli. Oggi il mondo è un po’ pericoloso, anche per le giovani generazioni, con i social media e tutto il resto. Noi abbiamo fatto una scelta consapevole: farli socializzare con bambini e adulti che condividono i nostri valori. Non sono isolati. Certo, in inverno magari un po’ di più, ma non isolati. Usciamo ogni settimana, andiamo nei parchi, nei negozi, dagli amici».
E le condizioni della casa? Le relazioni parlano di un rudere pericoloso.
«Non è vero. Abbiamo fatto una perizia statica, la casa è stabile, è sicura. C’è caldo, c’è la stufa, c’è l’acqua calda. I bambini non sono sporchi. Fanno il bagno tutti i giorni, curiamo i loro capelli, i loro denti. Mangiano benissimo, sono cresciuti in modo fantastico. Che male abbiamo fatto? Dicono che non c’è elettricità, ma la nostra è una scelta. Abbiamo tutto quello che serve».
La testimonianza di un amico della famiglia a Il Corriere della Sera
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Lei frequenta il babbo, è davvero un po’ radicale come lo descrivono?
«Perché vuole vivere a modo suo? Perché ricava soddisfazione dal fatto di mangiare le verdure del suo orto? Non vedo radicalismo nel voler fare il contadino».
Dice che a questa famiglia, e soprattutto ai bambini, non manca nulla?
«Nulla. Tranne quel superfluo di cui le vite degli altri sono piene».
Si è parlato della scuola che i bimbi non frequentano, la mancanza di socializzazione...
«Ma i bambini sono inseriti in un percorso perfettamente legittimo. Tutto in regola. Si tratta di un processo di scolarizzazione che viene effettuato in casa, tra le mura domestiche. Peraltro la famiglia è in possesso di attestati di riconoscimento dell’istruzione ricevuta».
Niente compagni però.
«Nessuno impedisce a questi bambini di frequentare altri coetanei, certo non il babbo e la mamma che sono persone estremamente aperte e solari e, se posso aggiungere, istruite: anzi, colte».
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